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mar 10

C’era una volta lo stradello Guerrini …

Nella bella stagione, percorrerlo in bicicletta verso sera  era un desiderio di assaporare libertà e natura.
S’imboccava via N. Sauro,si passava davanti al Club di Nevio Martello, all’elegante e severo portone in ferro battuto di Palazzo Guerrini, si voltava a sinistra ti trovavi di fronte l’officina Giatti, giravi  a destra e tra orti e galline, per un improvviso stretto sentiero, ti immergevi in un altro mondo. Ti accoglieva uno speciale Silenzio. Da ascoltare. Da vivere.
Si chiudevano i pensieri. Realtà e fantasia si confondevano in inesprimibili sentimenti.
Lo stradello diventava tuo.
Ti sentivi presa dal fascino particolare di esserti inoltrata in una lucente galleria verde che sovrastava ed accompagnava un fosso in tutta la sua lunghezza.
Il fosso.
Forse era quello delle favole.
Sulle sue rive primavera ed estate s’inseguivano: la terra andava in amore e le sponde si vestivano di erbe rigogliose, di fiori campestri subito visitati da insetti.
Il fosso.
Densamente punteggiato di lenticchie d’acqua verde chiaro, forato da gialli e longilinei iris selvatici, contornato da alte, bianche margherite che si ergevano leggiadre su umili fiori campestri, animato dall’estenuante gracidare delle ranocchie così furbe per la rapidità di tuffarsi in acqua, dal cinguettio incessante, pettegolo di uccelli che si riunivano prima di calarsi nel riposo notturno.
A volte ti sorprendeva un fruscio. Rallentavi. Un’agile lepre dalle orecchie sventolanti balzava sul sentiero. Fulminea spariva tra l’erba.  Immagine lampo. Solo la memoria riusciva a catturarla.
C’erano anche le more selvatiche che allungandosi, intrecciandosi, attorcigliandosi abbracciavano cespugli creando basse impenetrabili barriere.
Oltre gli alberi i campi.
Incontravi  nobili ed odorosi fusti di canapa resi leggiadri dalle loro piccole ed infinite foglie, le spighe del frumento, l’erba medica invitante a capriole nella sua morbidezza, il granoturco alto e legnoso.
L’odore inconfondibile di stalla ti avvertiva che eri circa a metà della tua passeggiata.
Appariva la bovaria Zannini. La sorpassavi, giravi a destra, sbucavi in Via Mercanta che nella sua stretta sinuosità ti faceva arrampicare su per la rampa dell’argine.
Ed ecco il grande Po. Lento, grande, solenne.
In mezzo l’isola rigogliosa e impenetrabile. In lontananza sulla linea ancora chiara dell’orizzonte, una corda tesa, a nodi tra le due rive: il vecchio ponte in chiatte.
Vicina alla riva la gru con l’immancabile barcone attraccato.
Giravi subito lo sguardo intorno. Il campanile alto, fermo nei secoli fuoriusciva dai tetti rosso scuro addossati gli uni agli altri, avvolto da ondulati voli di rondoni
La campagna si distendeva pigra a perdita d’occhio.
Il camino della fabbrica mandava sbuffi di fumo che si snodavano lenti verso l’alto.
Sotto l’argine minuscoli orti divisi da magri vigneti fronteggiavano antiche case contadine. Una conservava ancora il forno dove una volta la settimana il vicinato andava a cuocere il pane casereccio. Una ritualità  antica che nessuno amava ricordare.
Voci e richiami giungevano attutiti…
Ma chi catturava l’attenzione era il Po.
Il Po con il suo colore verde scuro, i suoi odori misti di acqua, terra, piante, i suoi fruscii, i suoi appartati ed ingannevoli gorghi.
Il Po con la sua antica vita racchiudente storia, miti, leggende, odio, amore, pace, paure, gioie, avventure, tragedie.
Uno stupore sempre nuovo.
Una breve sosta. Proseguivi. Imboccavi la prima discesa. In un attimo volavi giù per Via C. Battisti e…di nuovo svoltavi per Via N. Sauro verso lo stradello.
Un itinerario quasi circolare, familiare, obbligatorio legato ai ricordi dell’infanzia, dell’adolescenza, della prima giovinezza.
L’itinerario delle lunghe pedalate, della natura vissuta come normalità e scoperta, delle piccole complicità, delle grandi amicizie, degli innamoramenti fugaci, delle estati spensierate in campagna, quella campagna vicina e lontana che ora non c’è più.