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15 aprile 1434

Streghe che preparano pozioni – Incisione del XV secolo

Il racconto di fantasia si basa su tre elementi certi: la Visita Pastorale effettuata a Massa dal Vescovo di Ferrara nel 1434;
il “Compendio dell’arte essorcistica” di Fra Gelrolamo Menghi da Viadana – 1576;  le componenti caratteristiche del nostro paesaggio  prima della Bonifica Bentivoglio del 1618.

Sul retro della casupola accanto alla chiesa, Rufilia, concubina del Rettore don Angelo de Apulia parroco di Massa, finì di spennare un pollo.
Separò con destrezza le penne dalle piume, le legò a mazzetti che appese alle inferriate di una finestrella. L’aria tiepida di quel giorno di aprile la avrebbe asciugate senza raggrumarle.
Minuziosamente squartò il pollo gettando zampe ed intestini tra i tumuli del cimitero lì accanto.
Raccolse, invece, le frattaglie che, assieme alle erbe, immerse in un piccolo paiolo ricolmo d’acqua, deponendolo sul fuoco del camino per ottenere i suoi intrugli medicamentosi. 

Dalla gente,  Rufilia, era chiamata Malnata, una segnata da dio a causa di una imperfezione che si portava dalla nascita. Aveva un piede che sembrava caprino, inoltre fin da piccola era soggetta a convulsioni, durante le quali urlava e sbavava.
Nel tempo, questi difetti, le crearono la fama di creatura posseduta dal demonio.
Da bambina ne soffrì molto, fino a quando, una vecchia contadina, in una notte di luna piena, mentre stavano vicino al fuoco le disse: “ Tu non sei posseduta dal demonio, ma possiedi i poteri del demonio. Soffia sulle brace e vedrai.”
Rufilia obbedì e dalle brace si alzarono fiamme che assunsero la forma di una figura indistinta che la lambirono senza bruciarla.
Fu un attimo. La vecchia contadina sembrava dormire. Le fiamme sparirono e il fuoco ritornò brace. Il fenomeno non la intimorì, anzi la sedusse.
Aveva quattordici anni , era orfana e viveva presso una povera famiglia. 

Le parole della vecchia, l’immagine fiammeggiante, catturarono corpo e mente della giovanetta. Divenne sempre più agitata e selvatica. Iniziò a cantilenare strane tiritere durante i lavori nei campi, a nascondersi nei canneti, spiando le persone, ad offrire miscugli d’erbe e insetti ai bifolchi.
Un giorno d’estate, dopo la mietitura, mentre i contadini ammassavano le spighe di grano, queste, presero fuoco. Tutti fuggirono. Rufilia rimase ferma, raccolse una manciata di terra e la lanciò verso le fiamme che si spensero.
L’avvenimento dilagò nel villaggio, nelle campagne e per la gente, da quel giorno, Rufilia, la Malnata, divenne per tutti una donna dai poteri misteriosi. 

Don Angelo De Apulia, per non lasciarla in balia di demoni e dicerie sacrileghe, la volle come serva di casa e della chiesa. Le impose preghiere e penitenze che, sempre più spesso, praticavano insieme.
La sottomissione di Rufilia era, però, apparente. Segretamente praticava fatture. S’impose a Don Angelo e finì per diventarne la concubina. 

Da allora Malnata non si sentì più serva, cominciò a trarre profitto dalla fama di donna di poteri innaturali inventando filtri, oggetti e formule per tenere lontano il malocchio, favorire la foruna e provocare innamoramenti.
Nelle paludose terre della Massa e Castronovi era la sola in grado di fare incantesimi. Sicura di sé, astuta, nessuno osava contrastarla. Per i contadini del malocchio era forte quanto le angherie dei padroni ela violenza della natura. 

Il fiume che scorreva tra argini bassi e fragili,era il grande dominatore dei Polesini.
Gli uomini erano incapaci di dominare le sue piene che, tracimando o rompendo gli argini, rendevano le terre paludose ed avare di raccolti.
In una quotidianità fatta di miseria, gabelle, sofferenze, malattie, si affidavano, oltre che al divino, all’occulto.
Rivolgersi all’occulto era sia una necessità che una speranza. Il male contro il male. 

Con questo mestiere, assecondata dal volgo, l’incantatrice rimediava sacchetti di farina e di sementi, un po’ di lana, qualche botticella di vino. I bifolchi non sempre pagavano le decime al parroco, soprattutto da quando Don Angelo si era rimbambito, perdendo memoria e contratti, cosicché polli, quarti di cappone, sacchi di frumento arrivavano sempre più di rado.
La convivenza tra il Rettore e la serva era ritenuta scandalosa dai massari, ma non dai popolani che le riconoscevano un potere magico.
Questa era la vita di Rufilia detta Malnata. 

Quel giorno, oltre agli intrugli che stava preparando, era necessario che trovasse un’oca per preparare ghirlande. Già aveva predisposto le trappole nel fondo del ricco Bartolomeo De Avogadro, verso il quale nutriva un sordo rancore poiché la disprezzava in ogni luogo ed ella sfogava la sua rabbia indirizzandogli maledizioni, rubandogli animali, ortaggi e quant’altro riusciva.. Poche ore e gli avrebbe fatto l’ennesimo sgarbo.
Si coricò presto nel suo giaciglio.
Si svegliò nel cuore della notte ed uscì guardinga. Il chiarore riflesso della luna illuminava le rade casupole con il tetto di canne e lo stradone che, tra le piante, portava all’argine del Po. 

In quei giorni il livello del fiume era salito. Nel silenzio giungevano distinti i comandi del mugnaio indirizzati ai vogatori delle barche. Si doveva rimorchiare il mulino con le funi e spostarlo dove la corrente fosse meno impetuosa.
Ripensò all’ultima piena, quando il Po tracimò senza fare tanti danni, ma il livello dell’acqua era tanto alto che la gente diceva che i pesci volavano più alti degli uccelli. 

Si avviò in direzione opposta. Si immerse tra pioppeti, scivolò furtiva su ponticelli, costeggiò campi, arrivò alla Strada Comune, nei pressi delle Camatte.
Il luogo della sua vendetta era ancora distante. Attraversò fosse su passerelle pericolanti, evitò stagni, rasentò le cavedagne.
Finalmente arrivò al Gorgo che, una luce fredda di una imminente aurora, svelava poco per volta come una grande macchia verde cupo velata da una leggera nebbia.
Si acquattò fra le canne concentrando lo sguardo sul sentiero che degradava verso l’acqua, lungo il quale, il giorno prima, aveva sistemato due trappole. Era infastidita dal canto degli uccelli: ben altri suoni attendeva. 

L’alba esplose in un chiarore rosato. Da un casone poco distante si levò il canto di un gallo seguito da un chiocciolare di galline che si fondeva con lo starnazzare di oche.
Sentiva la voce di Pandolfo, il servo di Avogario, che cercava di sparpagliarle per il prato.
Malnata si alzò, afferrò il sacco, avanzò lentamente spostando le canne senza far rumore.
Ed ecco sul sentiero apparire una dondolante processione di oche. La donna si fermò.
Le guardava mentre dischiudevano il loro corteo man mano che avanzavano per disporsi, come sempre, in un piccolo spiazzo vicino all’acqua.
Tirò con forza una fune.  Uno schiamazzo improvviso. Uno schiudere d’ali. Un fuggi, fuggi scomposto.
Nella polvere una giovane oca si dibatteva nel disperato sforzo di liberare una zampa da un laccio che la tratteneva, impedendole ogni tentativo di fuga.
La cacciatrice corse. Afferrò la malcapitata per il collo. Uno stappo violento. Il corpo della bestiola penzolò inerte.
Malnata la insaccò e prontamente scomparve nel canneto. 

Pandolfo che già lavorava nell’orto, dallo schiamazzo, comprese ciò che stava accadendo.
Corse affannato verso il Gorgo. Sul sentiero alcune piume sparse confermarono i suoi sospetti.
Imprecò a bassa voce contro la donna. Non gridava il suo nome: temeva la maga e i suoi malefici più del padrone al quale, per questa ennesima ruberia, avrebbe dovuto prestare ulteriori lavori gratuiti per ripagarlo del danno subito per la mancata sorveglianza. 

Malnata, nel frattempo, ripercorreva lentamente i suoi sentieri segreti, evitando capanne e casoni, soffermandosi a raccogliere erbe, bacche, rami di salici selvatici, sterco di pecore.
Dalle Vegre si vedevano gli effetti delle inondazioni passate. Terreni vallivi dove si mischiavano sabbia, ghiaia, argilla e cuora. Tra le macchie palustri, gli acquitrini, le pozze di acque stagnanti che non trovavano sbocco per defluire al fiume, affioravano isole verdi di boschetti dove svettavano robinie selvatiche, querce ed aceri. 

Era l’acqua la sua grande nemica. L’acqua tumultuosa del Po in piena che trascinava tronchi di alberi divelti, che si rovesciava nei campi, che abbatteva i casoni.
L’acqua dei temporali estivi che, tramutata in grandine, distruggeva i raccolti, i teneri germogli degli ortaggi e dei frutti.
L’acqua che saliva dalla terra che diventava nebbia, avvolgendo tutto il villaggio e la campagna circostante impedendole di riconoscere i suoi riparati sentieri.
Contro l’acqua Rufilia non aveva poteri. Aveva provato ad esercitarli in segreto. Non ci era mai riuscita.
Aveva dominio sulle persone, ma non sulle forze della natura. 

Nei pressi di un ponte vide, a cavallo di un mulo, un funzionario dei “Lavorieri del Po”. Stava formando squadre di contadini per avviarli, chi a sorvegliare argini, chi, muniti di badili, a scavare terra e riempire sacchetti e cesti per tamponare, se necessario, fontanazzi o infiltrazioni.
“ Forse si dovrà fare come sempre la processione dalla chiesa all’argine – pensò la donna guardandoli da lontano – …forse dovrò dire a Don Angelo di preparare la portantina con la piccola statua lignea di Santo Stefano…”.
A sera inoltrata, però, si sarebbe recata sull’argine, avrebbe tentato ancora una fattura spargendo su quella corrente ostile erba catamandrina, piume, sale lanciando iatture.
Con questi pensieri giunse alle Camatte. 

In prossimità della fossa Pestrina, un cannarolole disse di aver visto sulla via Comune passare i carri e le guardie dl Vescovo di Ferrara.
La donna avvertì un senso d’inquietudine e gli  indecifrabili sogni della notte le balenarono innanzi.
Attraversò la nogarola, infilò il viottolo che conduceva alla Massa senza incontrare anima viva.
 Arrivò in prossimità della chiesa, svoltò sul sagrato e… “Eccola! E’ lei la strega!” urlò Bartolomeo De Avogario, al quale si unirono le imprecazioni degli altri massari.
Tentò di scappare. Forti mani l’afferrarono. Il sacco cadde e aprendosi svelò gli ingannevoli materiali del suo potere occulto. Si divincolò e bestemmiando maledisse tutti, ma dovette arrendersi.
Fu trascinata in chiesa stretta fra le guardie fin dietro l’altare, accompagnata dalle urla sempre più forti dei massari e dei bifolchi. Questi ultimi ora erano impauriti: si sentivano complici.
Se Rufilia avesse confessato di essere una maga, che era stata cercata, accolta nelle loro case, sarebbero stati scomunicati.
Avogario, con furia, scoperchiò una vecchia cassapanca contenente altri ingannevoli materiali dei suoi misteriosi poteri.
Muta e rannicchiata, la strega guardò gli strumenti dei suoi incantesimi. Ghirlande di penne di gallina, d’oca e di cappone, grani di fava, miglio e noci perforate da appendere all’interno delle abitazioni per allontanare il malocchio; matassine di fili rossi intrecciati e legati con nastrini bianchi per favorire i voluttuosi piaceri carnali di giovani e giovinette; pacchettini contenenti terra mescolata a sterco essicato di piccioni, di maiale e pecora, da spargere sugli orti per danneggiarne le sementi; una rozza croce di legno trafitta da chiodi, vari mozziconi di candele
.
La donna comprese che tutto era finito. Intravedeva già le torture, l’Inquisitore, il processo. Fu assalita dal suo antico male. Cominciò a tremare. Comparvero le convulsioni.
Gemeva, sbavava, roteava gli occhi, percorreva a carponi il pavimento ed  urlava… urlava… urlava…,  maledicendo tutti.
Agli occhi degli astanti sembrava l’incarnazione del diavolo. I bifolchi si fecero il segno della croce, i massari tentarono di bloccarla. 

Superstizione e religione, Bene e Male, Dio e Demonio si confondevano.
La Verità vinse lasciando Malnata spossata ed inerme.
Nel trambusto si alzò una voce autorevole, a lei  sconosciuta…
“Ha peccato contro Dio, Le Sacre Scritture, La Santa Madre Chiesa. Ha violato le leggi del nostro Stato. Questi oggetti sacrileghi siano subito bruciati! Sono proibite “incantationes”. La serva sia allontanata”. 

Chi aveva parlato era l’Eccellentissimo Vescovo di Ferrara Giovanni Tavelli da Tossignano che, dopo averla guardata severamente, si allontanò accompagnato da due prelati.
Rufilia, ora, era una strega anche per la Chiesa.
Fu legata per un piede ad un banco.
Nel tardo pomeriggio, issata su un carro predisposto a gabbia, venne portata via. Nessuno seppe mai dove.
Era il 15 aprile dell’anno del Signore 1434. 

Una sera, sul tardi, scoppiò un incendio al Gorgo. Lingue di fuoco uscirono dall’acqua e il vento le portò fino al querceto di Bartolomeo De Avogario, inabissandosi sotto la terra.
Tra i contadini si sparse la diceria che tra le fiamme ci fosse Malnata. 

Il suo ricordo rimase a lungo tra gli abitanti delle terre basse…  quando scoppiavano incendi, c’era sempre qualcuno che prendeva una manciata di terra e la lanciava sul fuoco come gesto scaramantico.
La tradizione popolare via, via, trasformò la sua vita in una leggenda che veniva narrata nelle lunghe sere d’inverno davanti al fuoco del camino nei casolari o nel tepore animale delle stalle.
Poco più di un secolo dopo, Fra Girolamo, un frate esorcista di Viadana, nel suo “Compendio dell’Arte esorcistica et delle sue mirabili opere” annotò: “…Malnata, strega della Massa et  di Castonovi, pare fosse stata arsa et abbruggiata dallo istesso Demonio che l’aveva custodita…”.